Il paese di San Giulio era adagiato in quel posto da tempi immemorabili, in cima a una collina rocciosa circondato su tre lati da uliveti a perdita d’occhio. A quell’ora della sera la pianura cittadina che si spalancava di fronte al piccolo borgo cominciava ad accendere le sue luci. Gli ultimi raggi del sole al tramonto filtravano tra le due montagne che coprivano il mare in lontananza, colorando di un rosa pallido la stretta ruga di abitazioni in tufo che si dipanava come uno spago fin su alla chiesa medievale.
Quel giorno dei primi d’agosto era speciale. Ci si preparava infatti a festeggiare la Madonna della Neve, che secondo un’antica tradizione cristiana avrebbe miracolosamente fatto nevicare in piena estate su un colle romano, nel luogo dove aveva voluto che fosse costruita una chiesa in suo onore.
San Giulio da cinquecento anni festeggiava questa ricorrenza con una processione solenne e con un gioco del tiro alla fune tra le due fazioni a est e ovest della via principale. Nella canonica vi erano affisse a ricordo vecchie foto del piazzale della chiesa e delle angustie vie paesane piene di piccoli petali bianchi, che venivano lanciati dai balconi e dalle finestre al passaggio della processione.
Le piccole fiammelle dei lumini danzavano sui balconi delle case e il parroco, con la sua voce stridula, stava dando le ultime definitive disposizioni per la buona riuscita della processione. Gli uomini più forti di San Giulio avrebbero portato come da tradizione l’enorme barèlla con l’immagine sacra, poi si sarebbero affrontati nel tiro alla fune al termine del corteo. All’appello ne mancava uno e Don Fulvio era in agitazione, perché se non si fosse presentato, avrebbe dovuto sostituirlo all’ultimo con un volontario che a stento avrebbe trovato.
L’ultima casa di San Giulio, isolata dalle altre, era una bel rustico ristrutturato che dominava i terreni agricoli circostanti. Apparteneva al più importante produttore di olio non solo del paese, ma dell’intera regione. Si era costruito un impero a partire dagli anni sessanta, quando in pieno boom economico aveva saputo far fruttare con fiuto il piccolo frantoio e gli uliveti di famiglia.
Lui e la moglie erano partiti per le loro vacanze estive il giorno prima della grande festa e da quel momento il cancello argentato della villa si era aperto e chiuso di continuo.
Sergio, l’unico figlio dell’imprenditore, approfittando dell’assenza dei genitori, aveva deciso di godersi quelle due settimane di libertà secondo il suo stile. Accompagnati i vecchi all’aeroporto in tarda mattinata, aveva rombato con il Suv fino alla banca, prelevato seimila euro dal suo conto e chiamato gli amici a raccolta per i dettagli logistici.
Sarebbero andati a “fare la spesa” nel pomeriggio; poi avrebbero contattato le ragazze per un party che già si prospettava memorabile. Lui si sarebbe occupato di sistemare la casa per l’impianto stereo e di riempirla di alcol, mentre gli altri avrebbero pensato alla roba e agli inviti da fare.
Da anni ormai Sergio era dedito al consumo massivo di cocaina. La dama bianca era una dolce schiavitù. Una fata maliarda che imbiancava le sue narici bovine nei momenti di impaccio. La sua naturale timidezza infatti, con l’inalazione della polvere magica, svaniva completamente, lasciando il posto alla spavalderia e alla sicurezza. Le sue peripezie con il cervello su di giri, nel corso degli anni, erano diventate leggende metropolitane.
Un anno, fatto fino al midollo, si era sfasciato con la sua auto sportiva in una gara di velocità, durante scommesse clandestine sulla tangenziale. Nella carambola il suo bolide aveva urtato un palo della luce volando di lato dritto in un pollaio. Quando il contadino era uscito in piena notte, vedendo le galline sepolte sotto un ammasso di lamiere, si era sentito male e per poco non ci aveva lasciato le bucce.
Sei mesi prima della festa paesana, dopo una nottata di bagordi, aveva falciato invece una fila intera di sciatori nella sua discesa a uovo su una nera dolomitica. Al pronto soccorso di Cortina sembrava un bollettino di guerra. Due menischi rotti, un legamento crociato, un perone fatturato, dieci punti di sutura totali. Lui, come sempre, ne era uscito illeso. La sua buona stella lo aveva sempre salvato, e per le grane economiche e legali ci pensava il papi con la sua schiera di avvocati.
Gli amici lo adoravano per le sue imprese. L’impacciato ragazzo di campagna si era costruito così, tra una sniffata e una bravata, la sua scalata sociale tra i dandy di città.
Mentre i genitori quella sera di vigilia navigavano già tra i fiordi della Norvegia, la casa di San Giulio era piena di gente. Musica non stop e un via vai continuo di ragazze da schianto e amici strafatti. La batteria di sostanze stupefacenti era nascosta in un vecchio armadio in camera di Sergio. Due etti di coca, qualche pasticca di ecstasy per gli amarcord degli after hours e marjuana in quantità industriali.
Sergio aveva invitato anche Giulia, la figlia del fornaio del paese, su cui aveva messo gli occhi da molti mesi. Per tutta la notte provò e riprovò a convincerla ad appartarsi con lui, ma non ci fu niente da fare. La sua musa se ne andò verso le cinque del mattino lasciandolo a ballare come un fesso.
La prima tornata della festa filò veloce come un treno, e intorno alle dieci di mattina se ne andarono gli ultimi immortali zombie comatosi.
Era così arrivato il gran giorno della festa paesana.
Sergio era distrutto, i suoi piedi piatti dopo aver saltato tutta la notte sembravano due zampogne, le occhiaie scure solcavano il viso paffuto. Era un ragazzone alto e corpulento, con una stazza che incuteva timore. Il segno distintivo era un tatuaggio enorme di una carpa rossa su una spalla, che sotto la luce abbagliante d’estate sembrava prender vita. Nonostante la sua corporatura da colosso, i suoi occhi tradivano un certo animo remissivo e arrendevole. In effetti in gruppo preferiva sempre eseguire piuttosto che imporsi, la grana di famiglia poi, lo aiutava a essere comunque, senza sforzo, uno dei membri di spicco della cerchia di amici.
Dopo aver sistemato alla meglio la casa si abbandonò molle su una sdraio a bordo piscina. La sua massa enorme dopo una notte di frenesia era quasi in uno stato di quiete. Con i piedi a mollo nell’acqua e con una canna tra le dita era sul punto di assopirsi.
Lo squillo del cellulare risuonò però all’improvviso come una tromba di cavalleria svegliando l’elefante, che con un barrito si destò dai suoi sogni allucinati.
Sergio prese il telefono e sentì una voce lontana perforare il suo timpano. «Sergio, sono Don Fulvio, mi raccomando! Stasera eh! Alle nove si parte!».
Sergio strabuzzò gli occhi e rispose dall’oltretomba con una voce baritonale: «Sì Don Fulvio non si preoccupi, ci sarò! A stasera!»
Si era quasi dimenticato. Quella era la sera della processione e del tiro alla fune. Lui era la punta di diamante della sua squadra. Con i suoi muscoli poderosi a tirare in fondo al gruppo, aveva condotto la sua fazione a vincere per ben cinque anni di seguito. Non poteva mancare. Tutti si aspettavano un’altra performance di qualità.
Dopo la telefonata molesta di Don Fulvio, il pachiderma socchiuse gli occhi gonfi e si assopì di nuovo. Non passarono neanche quattro ore che però i primi acuti di clacson fuori dal cancello lo svegliarono di nuovo. La fila di facce bianche cadaveriche stipate nelle macchine era di nuovo pronta allo sballo. La festa iniziava di nuovo. Andò in camera si fece un paio di strisce e ripartì.
Alle cinque del pomeriggio tornò anche Giulia. La piscina era strapiena e il giardino pure. Ci saranno state cinquanta persone a ridere, bere e pippare.
Sergio veleggiava fiero sul suo materassino a centro vasca, con un negroni in mano e la soddisfazione dentro. Tutti lo chiamavano, tutti lo cercavano, tutti si divertivano. Lui era il re della festa, l’imperatore fiero che osservava i sudditi divertirsi a spese sue. Galleggiava sopra i problemi, sopra la timidezza, sopra la noia di tutti i giorni. Era un motoscafo lanciato a mille tra le onde della vita, le frangeva sicuro e senza timore.
Anche Giulia era allegra e sembrava più disponibile della sera precedente. Se ne stava in un angolo della piscina con le braccia sul bordo e i lunghi capelli corvini che scendevano di lato. Era minuta e non molto alta, ma aveva le forme perfette di una diva del cinema. Le labbra carnose e scure sorseggiavano un mojito, mentre le goccioline d’acqua chiara scendevano languide dai suoi fianchi ad accarezzare la pelle olivastra.
Sergio navigò lento nella sua direzione usando le braccia come remi e una volta che le fu davanti, Giulia posò il bicchiere e si immerse tappandosi il naso. Sbucò fuori alla destra del materassino poggiando le braccia sulla plastica rosa. Sergio colto da un attacco di vero sé, arrossì al contatto visivo con gli occhi smeraldo profondi e insidiosi della sua amata. Giulia sorrise mostrando i suoi denti lattati e disse: «Che bella festa! Stavolta ti è venuta proprio bene!
«Sono molto felice» rispose Sergio, «soprattutto sono contento che ci sia anche tu», aggiunse. Lei scivolò di nuovo delicata sotto il pelo dell’acqua e uscii con una bolla d’aria spumosa vicino alla sua bevuta zuccherina, ricominciando a succhiarne il nettare come una farfalla assetata. Poi si voltò e disse: «perché non ci facciamo un paio di strisce?»
Sergio spalancò gli occhi, non credeva che quella dea greca invitasse lui ad appartarsi a condividere una sniffata. Sarebbe stato uno strano momento di intimità certo, ma a lui andava più che bene, visto che per anni lo aveva pressoché ignorato.
«Si certo, è tutto in camera mia» rispose Sergio, abbandonando il materassino e rovesciandosi su un lato.
«Ok andiamo» disse Giulia, prosciugando l’ultima stilla di canna da zucchero sul fondo del bicchiere.
Si voltò e in un attimo si issò fuori dalla piscina con grazia provocante, poggiando il fondoschiena liscio sul cotto piastrellato a bordo piscina. Sergio la seguì tirandosi su meglio che potè, con una gamba di lato e i rotoli di pancia schiacciati come un panino; poi le fece strada schivando i cadaveri di cicche e bottiglie distesi a terra.
Scelse un percorso più lungo per andare alla sua camera in modo che gli altri non li vedessero e non li potessero disturbare. Passarono così dietro un vecchio pino vicino al trampolino, andarono dritti per il prato, costeggiarono le piante di papiro e ibisco, finché si ritrovarono davanti alla vetrata semiaperta del salotto.
Sergio fece entrare Giulia per prima e si diressero entrambi verso la camera. Lei ondeggiava da maestra il sedere rotondo a ogni passo, tanto leggera che il rumoroso e scricchiolante parquet di rovere riposava silenzioso e ammaliato sotto i suoi piedi. Quel movimento lento e sinuoso era quasi ipnotico, che lui che se ne stava dietro, davanti a quello spettacolo, sentì una scossa immediata vibrare decisa nel costume verde.
Arrivati in camera lei si sedette sul letto disfatto mentre lui aprì l’armadio tirando fuori i bianchi dolcetti regalo. Aprirono la busta, presero una banconota da dieci e sù. Prima lei, poi lui. Un scrollata alle narici infarinate e poi sù. Prima lei e poi lui.
Giulia che nelle ultime ore ci aveva dato dentro parecchio, scoppiò in una risata fragorosa rovesciandosi indietro sul letto. Quando si rialzò vide l’erezione prepotente di Sergio davanti a lei, che imbarazzato provava a nasconderla girandosi di fianco, aumentandone invece la visibilità.
«Vieni qua» disse con la voce calma e setata.
A quelle parole sensuali e cadenzate, lui tornò a essere il bambinone delle scuole elementari, avvicinandosi voglioso e imbranato, come quando si accostava al barattolo di nutella.
Lei gli tirò giù il costume bagnato e lo portò a sé. In un istante erano nudi.
Cominciarono subito a fare l’amore, con la brutalità repentina e travolgente del desiderio represso. I seni affilati si agitavano sotto le spinte violente, mentre lei si contorceva dal godimento, quasi annegata dalla grande mole che le stava sopra. Dopo pochi brevi istanti il piacere di Sergio esplose come un vulcano ormai saturo di fluido bollente.
Durò pochi secondi. Così come era iniziato tutto finì in un attimo. Violento e veloce.
Si guardarono nudi e imbarazzati, spogliati da quello che erano prima di entrare in quella stanza. Non si dissero nulla e si rivestirono in silenzio. Lui per amore, lei per indifferenza. Fecero pochi passi e erano di nuovo in piscina, di nuovo volti distanti.
Il pomeriggio continuò così fino a che venne sera, tra risate all’aroma di droga e di alcol.
Sergio volava tra le persone con le ali della speranza. Avvertiva ancora tra le labbra il sapore aspro dei capezzoli vivaci. Già sentiva di amare quella bocca da favola. Più ci pensava e più la passione lo agitava, facendogli sentire la testa ovattata. La centrifuga delle emozioni era stata troppo impetuosa e adesso si sentiva frastornato. Per non pensarci continuò a sniffare e a bere tutto il tempo.
I piani nella sua testa erano già delineati. Il giorno dopo si sarebbe fatto forza, l’avrebbe chiamata e le avrebbe detto tutto quello che provava, magari davanti a un romantico drink giù al mare.
Tra i voli d’amore e i tuffi spensierati il tempo era volato e si era fatto tardi. Il cielo era all’imbrunire, e in lontananza, si sentì il suono opaco della banda che dava il via alla processione.
Poco male pensò il gigante, si sarebbe evitato la rottura di portare la barèlla per le strade strette e scivolose del paese. Sarebbe stato sostituito e lui sarebbe arrivato proprio all’ultimo, riposato e pronto per lo sfoggio della sua forza nel clou della serata. Una scusa sottovoce e uno sguardo duro avrebbero subito zittito le eventuali proteste stridule di Don Fulvio.
Gran parte della comitiva se ne era andata, ma ancora erano rimasti quei quindici paesani scalmanati che aspettavano la prestazione del loro amico al tiro alla fune, ed era rimasta anche Giulia con tre amiche pettegole.
Uscirono di casa. Sergio con il vestito da figurante guidava la comitiva, voglioso degli occhi di Giulia e con una straripante fiducia chimica nei suoi muscoli. Salirono così su per la strada stretta e ripida di ciottoli d’arenaria.
Giulia si accorse degli sguardi furtivi e bramosi che il capogruppo le rivolgeva, provando un viscerale senso di fastidio al pensiero di essere l’oggetto d’amore di quel grassone. Aveva fatto una stupidaggine, lo sapeva. Si era concessa per gioco. Forse era stata la droga, o forse il suo desiderio di inghiottire gli uomini. Sapeva quanto fossero voluttuose le sue forme e quanto fosse irresistibile. Sergio era solo l’ennesima dimostrazione di quanto fosse seducente il suo corpo, ma non provava niente, neanche una leggera tachicardia. I suoi sentimenti erano vuoti e desolati e quel pachiderma già le faceva provare un po’ di pena. Certo ora avrebbe dovuto affrontare l’ulteriore scocciatura di un probabile invito a cena, di una possibile dichiarazione, di avere un impiastro a scodinzolarle tra le gambe. Ma questo la stuzzicava anche un po’, immaginandosi quanto si sarebbe divertita con le amiche all’impaccio di quel disperato. Magari in futuro si sarebbe concessa un’altra volta, se ne avesse avuto voglia, se ci fosse stata una valida sollecitazione.
Cominciarono a vedere le strade anguste del paese schiarirsi dai trucioli di plastica biancastra che le donne avevano tirato dai balconi al passaggio della processione. La sfilata era appena terminata e davanti la chiesa era già tutto pronto, con la piccola folla che ogni anno aspettava di tifare la battaglia tra le due fazioni paesane. Poi il festeggiamento sarebbe continuato, tra gote avvinazzate e pance da riempire.
Sergio e il suo gruppo salirono per ultimi i gradini finali che portavano fino alla piazzetta, facendosi spazio tra le persone che si agitavano sotto gli alberi di leccio che costeggiavano il parapetto.
I moscerini si ammassavano confusi a migliaia sotto le luci dei riflettori che illuminavano lo spiazzo immacolato di bianco; era tutto pronto in attesa di incidere nella memoria anche quella nuova sfida, come le centinaia degli anni indietro.
Le grida e le risate si confondevano, a creare uno strano mormorio di sottofondo che accompagnava la scesa nel campo di gioco delle due squadre.
Gi amici ubriachi ed esagitati urlavano e schiamazzavano in preda all’euforia. Giulia e le amiche si tennero invece in disparte in un angolo della piazza, cominciando ad adocchiare vanitose altre prede per le loro ragnatele di superficialità.
Sergio salutò i suoi sette compagni di gioco e si mise alla corda come ultimo della fila. I suoi muscoli erano gonfi, i suoi occhi fuori dalle orbite, il suo animo pieno di ardore. Si girò un attimo per vedere se la sua musa crudele lo stavo guardando.
Lei ricambiò, mimando un sorriso di spietata determinazione.
La gara si sarebbe svolta al meglio delle tre tirate. Ogni squadra schierava i propri migliori otto giovani. Chi avesse vinto due battaglie, avrebbe vinto la guerra. Come onori, una foto in una stanza del piccolo municipio a ricordo dell’imperituro gesto compiuto e, ovviamente, una targa platinata alla fazione vincitrice, consegnata dalle mani tronfie del sindaco in persona.
Il colpo di pistola rimbombò tra i palazzi e la prima tirata ebbe inizio. La banda rossa oscillava al centro della fune sospesa nel vuoto, in attesa di spostarsi dalla parte dei vincitori. La gente gridava, incitava, bestemmiava. Il gioco se lo portavano dentro da secoli, era un evento che univa tutti in un filo rosso di generazioni andate e che dovevano venire.
La prima tirata fu dura, le smorfie di dolore dei partecipanti segnavano i visi tirati, le mani stringevano la corda aggrappandosi al destino. Fine. La prima era vinta.
I compagni di Sergio erano esausti, lui invece mostrava il petto fiero come un galletto di cortile. Era troppo carico, sentiva l’energia esplodere da ogni poro della sua pelle. Così esaltato ed eccitato che sarebbe stato pronto a fare di nuovo l’amore. Lì sulla piazza, davanti a tutti.
Le due squadre si riposarono qualche minuto e sostituirono gli elementi più sfiancati dallo sforzo precedente. Tutto era quasi pronto per la successiva tirata. Sergio si guardava intorno cercando di nuovo lo sguardo di Giulia tra la folla, voleva sapere se era fiera di lui, sentiva che era la sua carica supplementare.
Se avesse vinto, quel giorno sarebbe stato il più bello della sua vita, una nuova medaglia da mostrare a casa, un nuovo amore da esibire fuori.
I suoi occhi roteavano scrutando da un punto all’altro della piazza in cerca della sua dea. Ma non la trovò. Fece appena in tempo a stringere le sue mani callose intorno alla fune e a contrarre i muscoli per lo spasmo finale.
Bang! Iniziò la nuova tirata.
Era tutto uno sbraitare e abbaiare incitazioni ai loro beniamini. Le gambe si piegavano e spingevano dando impulso alle speranze di vittoria. Le bocche sbavavano fatica con le giugulari dilatate che solcavano i colli taurini. L’impegno questa volta fu anche più duro. Lo sforzo era enorme, ingestibile, schiacciante. Sergio era arrivato all’apice del suo sacrificio, voleva far bella figura a tutti i costi. Era paonazzo, le vene stavano per esplodere. Bang!
Cos’era? Un altro colpo di pistola?
No non era un arma da fuoco, era il suo cuore che aveva ceduto con uno sparo di addio. Le sue coronarie esasperate avevano ridotto il proprio flusso vitale minuti prima, riducendosi a spilli da cui non passava più neanche una stilla di sangue. Aveva esagerato, aveva chiesto troppo.
Il dolore fu improvviso. Sentì una fitta lancinante che come un maglio trapassò lo sterno. Il viso purpureo diventò pallore di morte. Il fiato si spense come il refolo di un palloncino che si sgonfia. L’ultima occhiata di vigore la gettò tra la massa di persone informi, sperando di vedere il corpo minuto della sua Giulia. Ma non la vide. Se ne era già andata e lui non lo sapeva.
Stramazzò a terra come un bufalo morso al collo, trascinando con sé tutta la fila dei compagni. Ci fu un sospiro di stupore tra la folla. Tutti i figuranti si rialzarono, ma lui rimase a terra, privo di vita. Aveva gli occhi sbarrati nel vuoto dell’eternità. E così rimase. I soccorsi arrivarono veloci ma non ci fu nulla da fare. L’infarto lo aveva fulminato.
Lo lasciarono lì come era rimasto per ore, fino all’arrivo del procuratore. Un cordone di carabinieri impedì l’accesso alla piazza. Nessuno lo toccò più. A poco a poco le persone se ne andarono sgomente e rientrano nelle case. Il corpo solitario di Sergio restò in mezzo alla piazza, riverso al suolo come una balena spiaggiata. Un’isola di ciccia in quel mare bianco di petali di plastica.
Si fece tarda notte e il silenzio calò crudo e impietoso. San Giulio era bellissimo nel suo candore estivo. Le strade deserte brillavano chiare alla luce livida della luna. Tutte quelle vie immacolate potevano far credere a un altro miracolo. Tutti sentirono un brivido far accapponare la pelle.
I cristalli di ghiaccio sembravano già seppellire le strade e le anime. Era quel distacco che chiude le esistenze e le isola dagli altri. Quel bacio gelido che fa sentire voglia di calore umano. Era il freddo pungente dell’inverno che già sbatteva sulle persiane chiuse.
Sembrava tutto reale, non una finzione. Era neve, neve d’estate.